VENEZIA: PALAZZO DUCALE
LE LOGGE
Notevoli sono poi due lapidi: una del 1362, in caratteri gotici, promette indulgenza a chi faccia elemosina ai carcerati; l’altra, di fronte alla Scala dei Giganti, è una raffinata esecuzione di Alessandro Vittoria a ricordo della visita a Venezia di Enrico III di Francia (1574) e si trova oltre l’accesso alla Scala d’Oro, ornato ai lati da due gruppi marmorei di Tiziano Aspetti (XVI secolo) raffiguranti Atlante che regge la volta celeste e Ercole che uccide l’Idra.
SALA CORNER
ATRIO QUADRATO
SALA DELLE QUATTRO PORTE
Realizzata tra il 1756 e il 58, quest’opera propone ancora il mito di una Venezia signora dell’Adriatico e consacrata a san Marco. Ma Tiepolo si allontana qui dalla tradizione pittorica rappresentando sia Nettuno sia il leone stanchi e sottomessi. E’ Venezia la stella luminosa del dipinto, acconciata come una patrizia di fine Cinquecento, incoronata, ingioiellata, avvolta in abiti cerimoniali, con la cappa di ermellino del doge, il bastone del potere militare nella mano. Le perle che indossa, come il corallo e l’oro che escono dalla cornucopia di Nettuno, confermano che il mare è la fonte di ricchezza di cui la Serenissima ha goduto nel corso della sua storia.
In questa stanza vi sono altre opere celebri, tra cui il Ratto d'Europa (1576-1580) di Paolo Caliari detto il Veronese (qui sotto).
Giove,
innamorato della principessa fenicia Europa, decide di rapirla assumendo
le sembianze di un toro. In primo piano la bella, vinto l’iniziale
timore, siede fiduciosa ed ignara sul falso toro che le lecca il piede,
baciandolo amorevolmente. Le ancelle la sostengono mentre degli amorini
volano gettando fiori dall’alto. Sul fondo ci viene raccontato il
seguito della storia: il toro lascerà la riva portando con sé Europa,
mentre le ancelle tenteranno di fermarlo gettandosi in acqua. Risalta su
tutto la grande eleganza della composizione e la qualità straordinaria
del colore, vivo e ricco di luce, che esalta la sensualità della
fanciulla.
SALA DEL COLLEGIO
Nella notte dell’11 maggio 1574 Palazzo Ducale è devastato da un incendio. Già nel 1575 viene affidato l’incarico al Veronese di realizzare le tele destinate a decorare il soffitto della rinnovata sala del Collegio. Per questo lavoro il pittore è pagato fino a luglio del 1577 ed è sicuro che le tele erano al loro posto prima del 3 marzo del 1578, quando muore il doge Sebastiano Venier, le cui insegne appaiono nel fregio sottostante al soffitto. La decorazione del soffitto si articola secondo un piano iconografico esaltatorio del buon governo di Venezia, della Fede su cui esso si basa e delle Virtù cristiane che ne guidano gli atti. I tre comparti centrali raffigurano Marte e Nettuno, La Fede e Venezia in trono con la Giustizia e la Pace; tutto attorno si trovano 8 pannelli con le figure delle Virtù, frammezzate da sei chiaroscuri con raffigurazioni di episodi storici.
Altre opere presenti in questa sala:
Paolo Caliari detto Veronese: Sebastiano Venier assistito dai Ss. Mauro e Giustina tra la Fede e Venezia, ringrazia il Redentore per la vittoria di Lepanto
SALA DEL SENATO
1- Jacopo e Domenico Tintoretto: Venezia seduta tra gli dei riceve i doni del mare
2- Andrea Michieli detto il Vicentino: Venere soprintende all'opera dei Ciclopi nella fucina di Vulcano
3- Antonio Vassilacchi detto l'Aliense: Il doge accoglie storici e poeti
4- Marco Vecellio: I maestri della Zecca coniano monete sorvegliati dai provveditori
5- Tommaso Dolabella: Il doge Pasquale Cicogna adora l'Eucarestia in occasione della consacrazione della chiesa del Redentore
6- Jacopo Robusti il Tintoretto: La Sapienza
7- Jacopo Robusti il Tintoretto: La Verità
8- Marco Vecellio: La Libertà
9- Marco Vecellio: Il Valore Militare
1- Copia di Jacopo d'Andrea dal Veronese: Giove fulmina i Vizi
2- Giambattista Ponchino: Mercurio e Minerva
3- Giambattista Ponchino: Nettuno su cocchio marino
4- Giovanni Battista Zelotti: Venere tra Marte e Nettuno
5- Giovanni Battista Zelotti: Giove e Giunone
6- Paolo Caliari il Veronese: Giunone che offre il corno ducale, gemme e oro a Venezia
7- Giovanni Battista Zelotti: Venezia sul globo e sul leone
8- Paolo Caliari il Veronese: Matrona con nell'alto divinità, che spezza ceppi e catene
9- Paolo Caliari il Veronese: Vecchio orientale con turbante seduto presso una giovane donna
SALA DELL’ARMAMENTO O DEL GUARIENTO
Sullo scomparto di sinistra è rappresentata una città in fiamme occupata dai demoni e abbandonata dagli abitanti terrorizzati. Il soggetto non ha alcuna relazione con lo scomparto centrale nel quale figura la crocifissione di una santa (santa Liberata o santa Giulia). Nello scomparto di destra sono dipinte, in primo piano, due figure (un monaco e un soldato), sullo sfondo un porto con navi affondate.
Le incongruenze tra le ante laterali e lo scomparto centrale hanno fatto pensare che le ante fossero state preparate per un’altra opera e accostate solo in seguito al pannello centrale.
Capolavoro
dell’arte gotica, il Palazzo Ducale di Venezia è una meravigliosa
costruzione composta da elementi di epoche e stili diversi:
- le fondamenta antiche
- la struttura d’insieme risalente al Tre-Quattrocento
- le aggiunte rinascimentali tra Quattrocento e Cinquecento
- le aggiunte manieristiche tra Cinquecento e Seicento.
Inizialmente
Palazzo Ducale era una fortezza; tradizionalmente la fondazione del
palazzo (sede del governo, residenza pubblica e privata del doge) è
attribuita ad Agnello Partecipazio, doge negli anni 810-827. A
questo periodo si fa risalire la nascita della città di Venezia;
precedentemente le isole della laguna erano abitate da alcune famiglie
dedite alla pesca e allo sfruttamento delle saline e solo di tanto in
tanto (a partire dal V secolo) era successo che abitanti dell’entroterra
si erano spostati temporaneamente nelle isole, in seguito a invasioni
di popoli barbarici (dai Visigoti agli Unni, dai Longobardi ai Franchi).
All’inizio
del IX secolo Venezia incomincia la sua storia vera e propria, con la
costruzione dei primi edifici pubblici, tra cui una prima basilica
edificata per conservare le spoglie di San Marco (che erano state
trafugate nell’828 da Alessandria d’Egitto) e il primo palazzo ducale,
cioè del doge di Venezia. A seguito degli studi effettuati nel XIX
secolo possiamo immaginare il castello dei dogi nell’XI secolo così come
nell’immagine qui sotto:
Fino
al primo terzo del XII secolo il Palazzo Ducale conserva il suo aspetto
fortificato, anche per i numerosi tumulti che segnarono la storia di
Venezia fino a quell’epoca. Poi, soprattutto con il dogato di Sebastiano
Ziani le cose cominciano a cambiare: fra il 1172 e il 1178 un nuovo
“palazzo comune” viene aggiunto alla prima costruzione, mentre
contemporaneamente si accelera la sistemazione di piazza San Marco.
La
storia di Palazzo Ducale nella sua forma attuale comincia nel 1340, con
una serie di interventi che portano al trionfo del Gotico in questo
stupendo edificio. Esso è formato da 3 grandi corpi di fabbrica che
hanno inglobato e unificato precedenti costruzioni:
-
l’ala verso il Bacino di San Marco (che contiene la Sala del Maggior
Consiglio) e che è la più antica, ricostruita a partire dal 1340;
-
l’ala verso la Piazza (già Palazzo di Giustizia) con la Sala dello
Scrutinio, la cui realizzazione nelle forme attuali inizia a partire dal
1424;
-
sul lato opposto, l’ala rinascimentale, con la residenza del doge e
molti uffici del governo, ricostruita tra il 1483 e il 1565.
UNA CURIOSITÀ:
dalla
9ª arcata della loggia, a partire da sinistra, riconoscibile dalle 2
colonne di marmo rosso di Verona, venivano lette le sentenze di morte.
INCOMINCIAMO LA VISITA AL PALAZZO DUCALE:
Entrati
nel Palazzo dalla Porta del Frumento (così chiamata perché vi si
trovava accanto l’Ufficio delle Biade), si ha a sinistra l’ala
occidentale e a destra l’ala rinascimentale, a est. Di fronte c’è il
lato settentrionale con cui Palazzo Ducale confina con la Basilica di
San Marco, che era la cappella del doge. La piccola facciata marmorea
con l’orologio risale ad un intervento di ristrutturazione del 1615.
Al centro del cortile vi sono due vere da pozzo, massicce e ornatissime fusioni in bronzo risalenti alla metà del XVI secolo.
Le
due ali più antiche del palazzo presentano sul cortile facciate più
semplici e severe, mentre l’ala rinascimentale ha una decorazione più
ricca, che culmina, sul fondo, con la Scala dei Giganti.
La
Scala dei Giganti è l’antico ingresso d’onore ed ha due colossali
statue di Marte e di Nettuno, scolpite da Jacopo Sansovino nel 1565,
simbolo della potenza di Venezia per terra e per mare. Qui il doge
veniva solennemente incoronato in presenza di una folla numerosa. La
scala, ideata da Antonio Rizzo tra il 1483 e il 1485 (e completata nel
1491 nella parte scultorea), è contigua all’Arco dedicato al doge
Francesco Foscari (1423-1457), vero arco trionfale, a tutto sesto, a
fasce alterne in pietra d’Istria e marmo rosso di Verona, collegato alla
Porta della Carta attraverso l’androne Foscari.
A
destra della Scala dei Giganti si apre il cinquecentesco Cortile dei
Senatori, dove questi si adunavano in attesa delle riunioni di governo.
Marte
Nettuno
LE LOGGE
Il
piano delle Logge consente un giro lungo le tre ali del palazzo; sono
proprio le Logge a conferire all’architettura del Palazzo la sua
caratteristica leggerezza.
Capitello esterno raffigurante l'Ebbrezza di Noè, attribuita a Filippo Calendario
(prima metà del XIV secolo)
L'esterno
di Palazzo Ducale ha una serie di capitelli decorati con complesse
allegorie. Centinaia di figure creano un vasto sistema simbolico, una
specie di enciclopedia che allude all'importanza del sapere. Come
ricorda a tutti il cartiglio in mano all'arcangelo Michele (scolpito
sullo spigolo verso le due colonne del molo), la sapienza ispira la
giustizia e conduce alla salvezza. Sotto di lui stanno le naturalistiche
statue di Adamo ed Eva, che rappresentano l'ignoranza e la
colpa originaria da riscattare. Lo stesso tema della giustizia e della
salvezza si riscontra negli altri capitelli, con pianeti e simboli
astrologici attorno al Sole, con il Giudizio di Salomone (verso la basilica di San Marco), e con l'Ebbrezza di Noè (nell'angolo di sud-est).
Per
salire ai piani superiori si passa lungo l’ala rinascimentale, dove si
trovavano gli uffici di varie magistrature. Sulla parete sono
incastonate diverse “bocche di leone”, in cui, a partire dalla fine del
XVI secolo, potevano essere introdotte denunce di crimini o
malversazioni. Una volta introdotto nella fessura, il biglietto finiva
nella cassetta di legno che si apriva dall’altra parte del muro. Va
detto che solo raramente questi esposti venivano recepiti dal Governo, e
in ogni caso dopo un’attenta verifica.
Notevoli sono poi due lapidi: una del 1362, in caratteri gotici, promette indulgenza a chi faccia elemosina ai carcerati; l’altra, di fronte alla Scala dei Giganti, è una raffinata esecuzione di Alessandro Vittoria a ricordo della visita a Venezia di Enrico III di Francia (1574) e si trova oltre l’accesso alla Scala d’Oro, ornato ai lati da due gruppi marmorei di Tiziano Aspetti (XVI secolo) raffiguranti Atlante che regge la volta celeste e Ercole che uccide l’Idra.
LA SCALA D’ORO
Il
nome Scala d’Oro deriva dalla ricchezza delle decorazioni in stucco
bianco e oro a 24 carati che ornano la volta, eseguite a partire dal
1557 da Alessandro Vittoria, mentre i riquadri ad affresco, della stessa
epoca, sono opera di Giambattista Franco. Voluta dal doge Andrea
Gritti, il cui stemma è visibile sull’arcone, fu progettata da Jacopo
Sansovino nel 1555 e ultimata dallo Scarpagnino nel 1559. Era la scala
d’onore che conduceva all’appartamento del Doge e alle sale in cui si
riunivano le magistrature della Repubblica.
La
prima rampa della scala è dedicata a Venere, come si deduce dai
riquadri del Franco, ed allude quindi alla conquista di Cipro, isola
natale della dea, da parte di Venezia ed ai suoi domini orientali. Dopo
la biforcazione, la scala a destra esalta Nettuno, cioè il dominio sul
mare da parte di Venezia.
PRIMO PIANO
SALA DEGLI SCARLATTI
La
sala, un tempo adibita ad anticamera per i consiglieri ducali, prende
probabilmente il nome dal colore delle loro toghe. Dell’antico arredo
conserva il soffitto intagliato, progettato ed eseguito probabilmente da
Biagio e Pietro da Faenza. Vi campeggia lo stemma del doge Andrea
Gritti. Tra due finestre è un camino, opera di Antonio e Tullio
Lombardo, eseguito nel 1507 e caratterizzato da una bella ornamentazione
con cornucopie, foglie d’acanto, volute, testine di putti. Di ambito
lombardesco sono probabilmente anche i due rilievi marmorei collocati
sopra le porte.
Alle pareti, due lunette ad affresco: la Resurrezione di Giuseppe Salviati, e Madonna col Bambino, opera giovanile di Tiziano.
SALA DELLO SCUDO
Il
nome della sala deriva dall’uso di esporre in essa lo stemma (scudo)
del doge in carica, che qui concedeva udienza e riceveva gli ospiti. Lo
stemma esposto è di Ludovico Manin, ultimo doge della Repubblica prima
della caduta nel 1797.
E’
l’ambiente più grande e luminoso di tutto l’appartamento e forma con la
Sala dei Filosofi (che ne costituisce il prolungamento ortogonale) la
geometria delle dimore veneziane più antiche, con pianta a T. Qui il
doge teneva banchetti e conviti, qui – dopo l’entrata ufficiale, che
avveniva nel Collegio – poteva ricevere gli ospiti. E’ caratterizzato da
una grande decorazione con carte geografiche e, al centro della stanza,
due globi con la sfera celeste e quella terrestre, a significare che la
potenza dello stato poggia su una tradizione illustre e gloriosa.
La
decorazione alle pareti fu eseguita, nella sua versione originale, dopo
l’incendio del 1483 dal geografo e umanista Giovan Battista Ramusio
(autore della mappa con l’Italia e il Mediterraneo), dal greco Giovanni
Domenico Zorzi (l’Asia anteriore) e dal cartografo piemontese Giacomo
Gastaldi (la Turchia e l’Egitto, l’Asia di Marco Polo). Queste quattro
carte geografiche, che rivestono le due pareti principali, vennero poi
rifatte nel 1762 dal cartografo e poligrafo Francesco Grisellini, che su
commissione del doge-letterato Marco Foscarini vi aggiunse altri
dipinti con la descrizione dei viaggi dei più celebri esploratori
veneziani: Nicolò e Antonio Zen, che si spinsero sino alla Groenlandia;
Pietro Querini, naufragato sui fiordi norvegesi; Alvise da Mosto,
scopritore delle isole del Capo Verde.
Alla stessa epoca appartengono anche i due grandi globi girevoli.
SALA GRIMANI
La
stanza prende il nome dallo stemma dei Grimani, visibile al centro del
soffitto. Questa potente famiglia fornì 3 dogi alla Repubblica: Antonio
(1521-1523), autentico self-made man arricchitosi con la mercatura in
Levante; Marino (1595-1605) che alla sensibilità culturale accompagnò i
tratti del mecenate e una innata generosità verso i poveri; Pietro
(1741-1752) che dall’amicizia con Newton seppe ricavare una proficua
lezione del modello economico inglese.
Con
questa stanza si entra nello spazio esclusivamente riservato alla
dimora privata del Serenissimo. Notevole il caminetto, riconducibile
alla bottega dei Lombardo; l’elegante fascia ornamentale propone il
leone marciano circondato da divinità e figure marine; i quadri del
fregio attorno al soffitto sono tutti di Andrea Vicentino (fine del
‘500) e rappresentano figure allegoriche di incerta identificazione,
tranne quelli che ritraggono San Marco col Leone, la Geografia, l’Agricoltura, la Legge, l’Architettura, Venezia in figura muliebre, l’Astronomia, la Ricompensa, la Vergine.
Alle pareti sono stati riuniti altri importanti dipinti raffiguranti il Leone di San Marco, tra cui il celeberrimo Leone andante
di Vittore Carpaccio, con le zampe anteriori sulla terra e quelle
posteriori sulle onde, a simboleggiare il dominio della Repubblica sulla
terra e sui mari.
Gli altri due, quattrocenteschi, sono opera di Jacobello del Fiore e di Donato Veneziano.
Vittore Carpaccio: Il leone andante di San Marco (1516)
Sullo
sfondo si riconosce il paesaggio lagunare con gli edifici della piazza
prospicienti il bacino: il Campanile, la Torre dell’orologio, la
Basilica marciana ed il Palazzo Ducale. A destra si vedono le galeazze,
le grandi galere a remi e a vela che assicurarono a Venezia il dominio
sui mari.
SALA ERIZZO
In
questa sala, che deve il suo nome a Francesco Erizzo, doge dal 1631 al
1646, ritroviamo gli stessi elementi decorativi delle sale precedenti:
il soffitto ad intagli dorati su fondo azzurro ed il camino lombardesco,
sormontato da una cappa con lo stemma Erizzo tra Venere e Vulcano.
Lungo le pareti corre un fregio con putti e simboli di guerra che
alludono alle imprese del doge Erizzo, giunto al vertice dello Stato
grazie soprattutto alle benemerenze militari. Da qui, attraverso una
finestra alla quale si accostava una scaletta, si passava a un giardino
pensile.
Il doge Francesco Erizzo in un ritratto di Bernardo Strozzi del 1631 circa
Scudo della Croce, moneta in argento con il nome di Francesco Erizzo
SALA DEGLI STUCCHI O PRIÙLI
La
lavorazione a stucco della volta e delle lunette risale al dogado di
Marino Grimani, mentre è del doge Antonio Priuli (1556-1559) lo stemma
che decora il caminetto, sormontato da figure allegoriche. Pietro
Grimani ordina le decorazioni in stucco alle pareti e al soffitto nel
1743.
La
sala è arricchita da dipinti con vari episodi della vita di Cristo,
oltre che dal ritratto del re di Francia Enrico III (forse di mano di
Jacopo Tintoretto), a cui Venezia riservò una spettacolare accoglienza
nel 1574, mentre si recava dalla Polonia in Francia per succedere al
trono lasciato vacante dal fratello Carlo IX.
SALA DEI FILOSOFI
La
sala – che prende nome dalle dodici immagini di filosofi antichi che vi
erano state sistemate nel XVIII secolo, poi sostituite da allegorie e
ritratti di dogi – si raccorda direttamente con la sala dello Scudo.
Dando le spalle a quest’ultima, si nota sulla parete a sinistra, una
porticina che immette su una scaletta interna, mediante la quale il Doge
poteva raggiungere rapidamente dai suoi appartamenti le sale al piano
superiore dove si riunivano il Senato ed il Collegio.
Sulla parete sopra la porta si trova l’affresco di Tiziano San Cristoforo con il Bambino sulle spalle mentre guada il corso d’acqua, carico di significati ideologici, splendida testimonianza della fase giovanile del maestro.
SALA CORNER
Il
nome fa riferimento ad alcuni dei dipinti della sala, che raffigurano
il doge Giovanni Corner (1625-1629). Notevole il camino, in marmo di
Carrara, con fregio raffigurante putti alati su delfini ed il leone
marciano al centro.
SALA DEI RITRATTI
Vi si trovano esposte la tela di Alvise Vivarini con la Madonna in trono col Bambino, una Vergine orante di scuola giottesca ed il Cristo compianto, frutto probabilmente della collaborazione tra i fratelli Gentile e Giovanni Bellini, intorno al 1472.
SALA DEGLI SCUDIERI
Gli
scudieri erano nominati a vita direttamente dal doge e otto di loro
dovevano essere sempre a sua disposizione. Le loro funzioni andavano
dallo svolgere servizi di anticamera, al portare i simboli del
Serenissimo nei cortei e nelle processioni. La sala è priva della
decorazione originaria ed il suo maggior pregio è dato dai due portali:
uno immette nella sala dello Scudo, mentre l’altro consente l’accesso
alla Scala d’Oro. E’ evidente perciò che l’ingresso principale
all’appartamento ducale avveniva proprio attraverso questo ambiente.
SECONDO PIANO
SALE ISTITUZIONALI (secondo piano)
Inizia
con l’Atrio Quadrato il lungo percorso attraverso le Sale Istituzionali
del Palazzo, dove si svolgeva ai massimi livelli la vita politica e
amministrativa della Repubblica, per secoli oggetto d’ammirazione:
stupivano la sua immutabilità – peraltro mai codificata, mai posta per
iscritto – e la sua efficienza capace di sfidare il tempo, garantendo la
pace sociale.
ATRIO QUADRATO
Questa
stanza aveva soprattutto una funzione di anticamera ai luoghi in cui si
riunivano i più importanti organi di governo. Il decoro risale al XVI
secolo, durante il dogado di Girolamo Priùli, raffigurato sul soffitto,
in un dipinto di Tintoretto, ornato delle prerogative del potere e dei
simboli di Giustizia e Pace. Agli angoli quattro scene bibliche, che
alludono forse alle virtù del doge, e le stagioni, probabilmente opera
della bottega di Tintoretto. Il programma celebrativo era completato da
quattro dipinti di mitologie che si trovano ora nella sala
dell’Anticollegio. Al loro posto vi sono L’angelo annunciante ai pastori di Girolamo Bassano e opere di soggetto biblico attribuite con qualche dubbio a Paolo Veronese.
Jacopo Robusti detto il Tintoretto: Il doge Gerolamo Priùli riceve dalla Giustizia la bilancia e la spada (1565-1567)
Il
doge è inginocchiato, veste il mantello di ermellino ed il corno
dogale, il celebre copricapo della massima autorità veneziana, mentre
riceve la spada e la bilancia dalla Giustizia e dalla Pace,
riconoscibile per il ramoscello di ulivo attorno al braccio. Dall’alto,
in un moto vorticoso di vesti, scende San Girolamo a guidare le scelte
del suo protetto.
corno dogale SALA DELLE QUATTRO PORTE
La
sala aveva la duplice funzione di anticamera d’attesa e di passaggio e
prende il nome da quattro splendide porte incorniciate da preziosi marmi
orientali, sormontati ciascuno da un gruppo scultoreo che si riferisce
all’ambiente al quale dà accesso. L’aspetto attuale risale ad
un’imponente ristrutturazione operata dopo il disastroso incendio del
1574 da Antonio da Ponte su progetto di Andrea Palladio. Il soffitto a
botte (con stucchi di Giovanni Cambi detto il Bombarda) ospita affreschi
a soggetto mitologico e raffigurazioni di città e regioni sotto il
dominio veneto, realizzati da Jacopo Tintoretto a partire dal 1578;
questa decorazione vuole mostrare la fondazione di Venezia, la sua
indipendenza sin dalle origini e la missione storica dell’aristocrazia
veneziana.
Le opere alle pareti di questa sala furono realizzate alla fine del Cinquecento; tra esse Il doge Antonio Grimani in adorazione davanti alla Fede e san Marco in gloria di Tiziano.
Questo
dipinto è l’unico dei quadri votivi dogali di Tiziano a essere sfuggito
agli incendi che colpirono Palazzo Ducale nel 1574 e nel 1577. Il
quadro fu infatti commissionato dal Consiglio dei Dieci nel 1555, ma
rimase a lungo nella bottega del pittore e fu collocato nella Sala delle
Quattro Porte solo dopo la morte dell’artista (e con alcune modifiche
alle figure laterali). Il Grimani, prima di diventare doge, aveva
ricoperto la carica di “capitano generale da mar”, che gli aveva recato
amare delusioni (la sconfitta subita dai Turchi presso Zonchio nel 1599 e
un conseguente processo intentato contro di lui dalla Repubblica) e
persino umiliazioni (la pubblica ammenda in catene), prima della
riabilitazione e dell’elezione a doge. Per questo Tiziano lo ritrae non
in vesti dogali, ma in armatura, sottolineando il suo ruolo di difensore
della Fede. L’atteggiamento di Antonio Grimani, con le braccia aperte
come san Francesco che riceve le stimmate, e il corno ducale tenuto in
mano da un valletto mostrano come il pittore abbia voluto dare del doge
un’immagine di umiltà e di intensa devozione. A sinistra compare la
figura di san Marco, che leva lo sguardo verso l’apparizione divina,
mentre sullo sfondo si apre una luminosa veduta di Venezia e del suo
porto stipato di imbarcazioni, simbolo della sua potenza navale,
celebrata nonostante la memoria della sconfitta che la figura del doge
portava con sé.
In questa sala si può ammirare anche, a cavalletto, una celebre tela di Giambattista Tiepolo: Venezia che riceve da Nettuno i doni del mare.
Realizzata tra il 1756 e il 58, quest’opera propone ancora il mito di una Venezia signora dell’Adriatico e consacrata a san Marco. Ma Tiepolo si allontana qui dalla tradizione pittorica rappresentando sia Nettuno sia il leone stanchi e sottomessi. E’ Venezia la stella luminosa del dipinto, acconciata come una patrizia di fine Cinquecento, incoronata, ingioiellata, avvolta in abiti cerimoniali, con la cappa di ermellino del doge, il bastone del potere militare nella mano. Le perle che indossa, come il corallo e l’oro che escono dalla cornucopia di Nettuno, confermano che il mare è la fonte di ricchezza di cui la Serenissima ha goduto nel corso della sua storia.
Giambattista
Tiepolo è uno dei rari pittori settecenteschi che ebbero la possibilità
di contribuire con una loro opera all’ampliamento della decorazione di
Palazzo Ducale, sostanzialmente completata all’inizio del Seicento.
L’occasione è legata al degrado di un affresco di Jacopo Tintoretto; per
questo si spiega la presenza in questo dipinto di forme stilistiche
tipicamente cinquecentesche.
SALA DELL’ANTICOLLEGIO
Questa
sala era l’anticamera d’onore per le ambascerie e le delegazioni che
attendevano di essere ricevute dal Collegio, cui era delegata la
politica estera dello stato.
Anche
questo ambiente, come il precedente, fu restaurato dopo l’incendio del
1574 e il suo apparato decorativo è perciò simile a quello della Sala
delle Quattro Porte, con stucchi ed affreschi sul soffitto. Quello
centrale, con Venezia in atto di conferire ricompense e onori, si deve a
Paolo Caliari detto Veronese. Un prezioso fregio orna le sommità delle
pareti e sontuosi sono il camino tra le finestre e la bella porta che
immette nella sala del Collegio, adorna di colonne e con un frontone
sormontato da un gruppo marmoreo di Alessandro Vittoria.
Accanto alle porte sono collocate le quattro tele dipinte da Jacopo Tintoretto per l’Atrio Quadrato, portate qui nel 1716 a
sostituzione dell’originaria decorazione con pannelli di cuoio. In
tutte, le scene mitologiche hanno significati allegorici del saggio
governo della Repubblica.
Jacopo Robusti detto Tintoretto:
La Pace, la Concordia e Minerva che scaccia Marte
Il
dipinto fu eseguito da Tintoretto per le pareti dell’Atrio Quadrato,
insieme ad altre 3 tele; la commissione dei quattro dipinti allegorici
legati al concetto tematico dell’unione e della concordanza risale al
1577 e risultava portata a termine il 26 luglio 1578, quando Paolo
Veronese e Palma il Giovane fornivano una stima delle opere, al fine di
stabilire quanto Tintoretto dovesse percepire dai Provveditori del Sale
per il lavoro svolto. Le potenti figure di questa tela, sintetizzate
nelle pose, sono legate l’una all’altra dai gesti: Minerva, al centro,
si volge verso Marte respingendolo con il gesto della mano, mentre con
l’altra si appoggia alla Pace, che si rivolge alla Concordia, di cui si
vede solo il profilo e la spalla.
Jacopo Robusti detto il Tintoretto: Le Tre Grazie e Mercurio
Nel
1648 Carlo Ridolfi spiegò il significato dell’allegoria rappresentata
in questa tela come celebrazione politica del saggio governo della
Repubblica di Venezia. In tempi recenti il significato del dipinto è
stato allargato al campo cosmologico: ognuna delle tele dipinte per
l’Atrio Quadrato alluderebbe a una stagione e a un elemento,
corrispondendo alle raffigurazioni delle Stagioni rappresentate sul
soffitto della sala. Così il germogliare delle piante, lo sbocciare dei
fiori e le movenze delle figure femminili nell’atto di sollevarsi
evocherebbero qui la primavera e l’elemento dell’aria. Come in un fregio
figurale le Grazie sono legate l’una all’altra, le pose dinamicamente
impostate lungo direttrici diagonali, movimentate dalla luce diurna che
colpisce i corpi sbalzandoli morbidamente. L’incarnato delle Grazie è
esaltato dalla luce naturale e dalle cromie dei panneggi setosi e
abbondanti che cingono ciascuna delle tre.
Jacopo Robusti detto Tintoretto:
Lo sposalizio di Bacco e Arianna alla presenza di Venere
Al
significato antico di Venezia nata in una spiaggia di mare, resa
abbondevole d’ogni bene terreno, ma coronata anche con corona di libertà
dalla mano divina, si può affiancare un altro significato cosmologico: e
dunque, questa tela rappresenterebbe le nozze simboliche di Venezia con
il mare Adriatico, che si rinnovano ogni anno con grande fasto nel
giorno dell’Ascensione, ma anche la stagione dell’autunno a cui si
riferiscono la corona di pampini di Bacco e l’elemento dell’acqua dello
sfondo marino. Come avviene nelle altre tre tele della sala, la
composizione vede il disporsi delle poche figure monumentali in pose
elegantemente dinamiche, mentre il paesaggio è solo accennato. Nel
dipinto il movimento ritmico che informa i tre personaggi ha origine
nell’incontro delle loro mani, proprio al centro della composizione.
Jacopo Robusti detto Tintoretto: La fucina di Vulcano
In questa stanza vi sono altre opere celebri, tra cui il Ratto d'Europa (1576-1580) di Paolo Caliari detto il Veronese (qui sotto).
SALA DEL COLLEGIO
Il
Collegio, o Pien Collegio, riuniva i Savi e la Signoria, organi
distinti ed autonomi. I primi si dividevano in Savi del Consiglio, che
si occupavano soprattutto di politica estera, Savi di Terraferma,
competenti sulle questioni inerenti i territori fuori della laguna, e
Savi agli Ordini, che sovrintendevano alle materie marittime. La
Signoria era composta dai tre capi della Quarantia e dal Minor
Consiglio, formato dal doge e da sei consiglieri, uno per ogni sestiere.
Questa interrelazione tra diverse cariche era uno dei segreti della
costituzione veneziana, che fu in grado di garantire per secoli da un
lato gli equilibri istituzionali, dall’altro la pace sociale e fu
oggetto di ammirazione delle principali potenze europee. I compiti del
Collegio erano soprattutto quelli di predisporre e coordinare i lavori
del Senato, leggendo i dispacci degli ambasciatori e dei rettori,
ricevendo le delegazioni straniere e promuovendo l’attività legislativa e
politica.
L’occasione
del secondo ciclo di pitture di Paolo Veronese al Palazzo Ducale è
conseguente all’incendio che nel maggio del 1574 distrugge una parte
delle sale del secondo piano. Si tratta del soffitto della monumentale
sala del Collegio: questa, così come quelle contigue, venne ricomposta
dopo l’incendio su disegno di Andrea Palladio e risulta, pur nel suo
fasto inevitabile e dichiarato, vista l’importanza del luogo nella
liturgia del potere e delle sue manifestazioni, di grande equilibrio.
Veronese vi lavora dall’estate del 1576 e per tutto l’anno successivo e
oltre, così che nel corso del 1578 il complesso risultava terminato,
costituito in tutto da 17 scene più 4 tele ottagonali con iscrizioni
latine.
La
decorazione della sala fu completata dopo l’incendio del 1574 su
progetto di Andrea Palladio. Francesco Bello e Andrea da Faenza
lavorarono alla realizzazione del rivestimento ligneo delle pareti, del
tribunale sul fondo e del soffitto intagliato. Le splendide tele del
soffitto furono invece commissionate a Paolo Caliari detto Veronese. Il
soffitto del Collegio è uno dei capolavori dell’artista che celebra qui Il Buon Governo della Repubblica, la Fede su cui esso riposa e le Virtù
che lo guidano e lo rafforzano. Il primo scomparto rettangolare ci
presenta la visione del campanile di San Marco che emerge dietro le
figure di Marte e Nettuno. Al centro è Il Trionfo della Fede e nello scomparto rettangolare, verso la tribuna, Venezia con la Giustizia e la Pace. Tutto attorno, in otto pannelli a forma di T e di L, stanno le Virtù di Governo.
La grande tela posta sopra il Tribunale, ancora di Paolo Veronese,
esalta la prestigiosa vittoria ottenuta a Lepanto il 7 ottobre 1571
dalla flotta cristiana su quella turca, con il prevalente contributo di
navi e uomini veneziani.
Il
resto delle opere di questa sala è dovuto a Tintoretto e aiuti. Vi sono
raffigurati dogi assistiti dal Salvatore, dalla Vergine e dai Santi.
Lo
splendido soffitto del salone è formato nel suo disegno da un insieme
di cornici intagliate e dorate disposte secondo una sostanziale
tripartizione, leggibile però sia in senso longitudinale che in quello
trasversale, dando vita a blocchi potenti di figure geometriche e di
ricchissimi ornati ad intaglio di differente concezione.
Sull’asse longitudinale mediano sono disposte le tele maggiori, due rettangoli e un ovato al centro con Marte e Nettuno, Venezia dominatrice con la Giustizia e la Pace, La Fede e la Religione. Agli angoli del soffitto, quattro tele a L con La Ricompensa, La Prosperità, La Fedeltà, La Moderazione; negli spazi mediani tra le scene centrali, quattro tele a T con La Semplicità (o La Purezza), La Mansuetudine, La Vigilanza, L’Industria (o, secondo altri, La Dialettica).
A
completare il complesso, sei tele oblunghe – quattro ovali e due
ottagoni allungati – con scene storico-allegoriche raffiguranti
altrettanti exempla di virtù civili riferiti a Lucio Cornelio Silla,
Publio Decio Mure, Caronda, Zaleuco e due ad Alessandro Magno.
Suggeritore
del programma iconografico pare sia stato Marcantonio Barbaro, fratello
di Daniele, intellettuale di vaglia e dilettante di pittura e scultura.
Il soffitto e i dipinti della Sala del Collegio:
1- Allegoria della Fede "Rei Publicae Fundamentum"
2- Venezia in trono onorata dalla Giustizia e dalla Pace
3- Marte e Nettuno
4- Prosperità
5- Fedeltà
6- Vigilanza
7- Mansuetudine
8- Dialettica
9- Semplicità (o Purezza)
10- Ricompensa
11- Moderazione
Paolo Caliari detto Veronese: Marte e Nettuno
Nella notte dell’11 maggio 1574 Palazzo Ducale è devastato da un incendio. Già nel 1575 viene affidato l’incarico al Veronese di realizzare le tele destinate a decorare il soffitto della rinnovata sala del Collegio. Per questo lavoro il pittore è pagato fino a luglio del 1577 ed è sicuro che le tele erano al loro posto prima del 3 marzo del 1578, quando muore il doge Sebastiano Venier, le cui insegne appaiono nel fregio sottostante al soffitto. La decorazione del soffitto si articola secondo un piano iconografico esaltatorio del buon governo di Venezia, della Fede su cui esso si basa e delle Virtù cristiane che ne guidano gli atti. I tre comparti centrali raffigurano Marte e Nettuno, La Fede e Venezia in trono con la Giustizia e la Pace; tutto attorno si trovano 8 pannelli con le figure delle Virtù, frammezzate da sei chiaroscuri con raffigurazioni di episodi storici.
Venezia
è raffigurata come una splendida giovane donna vestita di abiti
elegantissimi, intessuti d’oro, e di un manto di ermellino, che regge
con la mano destra il bastone del comando; il suo volto è colto in
controluce, secondo una consuetudine tipica della produzione matura di
Paolo, che verrà assai apprezzata e imitata, due secolo dopo, anche da
Giambattista Tiepolo.Sotto il trono su cui Venezia siede si trova
accucciato il leone, simbolo del protettore della città san Marco e
dello stesso Stato veneziano. Ai piedi dei gradini si trovano le due
figure allegoriche della Giustizia (a destra) e della Pace (a sinistra),
identificabili la prima dal tradizionale attributo della bilancia e la
seconda dalla spada.
Le otto figure delle Virtù cristiane
collocate ai lati dei dipinti centrali, tutte rappresentate da giovani
donne bellissime, sono riconoscibili grazie agli attributi che le
accompagnano: La Fedeltà dal cane, La Mansuetudine dall’agnello, La Semplicità (o Purezza) dall’ermellino, La Ricompensa dal dado e dalla corona, La Moderazione dall’aquila, La Vigilanza dalla gru, La Prosperità dalla cornucopia e La Dialettica (in passato impropriamente ritenuta anche L’Industria)
dalla ragnatela. Esse sviluppano una forma decorativa di preziosa
limpidezza e intensità coloristica, portando a una forte tensione
superficiale i piani luminosi, gli effetti cangianti, la trasparenza
alabastrina dei colori. Le otto figure femminili si accampano
all’interno del limitato spazio a disposizione del pittore, ma quasi ne
annullano i limiti, grazie al telaio quasi ininterrotto delle
architetture che appaiono sullo sfondo di ciascuna tela, che sembrano
quasi girare intorno alla sala, suggerendo un’unità di spazio luminoso.
Risulta così un effetto di ampliamento illusorio dello spazio in
profondità che sfonda quello reale, per proiettare quasi le figure
contro il cielo.
Paolo Caliari detto Veronese: La Dialettica
Paolo Caliari detto Veronese: La Fedeltà
Paolo Caliari detto Veronese: La Mansuetudine
Paolo Caliari detto Veronese: La Semplicità
Paolo Caliari detto Veronese: La Moderazione
Altre opere presenti in questa sala:
Paolo Caliari detto Veronese: Sebastiano Venier assistito dai Ss. Mauro e Giustina tra la Fede e Venezia, ringrazia il Redentore per la vittoria di Lepanto
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Andrea Gritti, assistito da S. Marco, dinanzi a Maria e ai Ss. Bernardino, Luigi e Marina
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Sposalizio di S. Caterina e il doge Francesco Donà orante
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Il doge Nicola Da Ponte, assistito dai Ss. Marco e Nicola, invoca Maria in gloria tra i Ss. Antonio abate e Giuseppe
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Il doge Alvise Mocenigo, assistito da S. Marco, prega Cristo per la cessazione della peste del 1576
Questa
sala, detta anche dei Pregadi, perché il doge “pregava” i membri di
partecipare alle riunioni, ospitava le adunanze del Senato, una delle
più antiche istituzioni veneziane, la cui creazione risale al XIII
secolo. Era l’organo deputato a sovrintendere alle materie
economico-finanziarie, come la produzione, il commercio e la politica
estera e divenne una sorta di comitato ristretto del Maggior Consiglio a
cui avevano accesso solo gli esponenti delle famiglie più abbienti.
I
lavori di rifacimento della sala dopo l’incendio del 1574 avvennero
negli anni ottanta del Cinquecento. Terminato il soffitto, si diede
inizio alla decorazione pittorica, che risulta terminata completamente
nel 1595. Tintoretto e la sua bottega sono gli autori di alcune opere in
cui si nota la preminente figura del Cristo (allusione forse alle
funzioni di “conclave” del Senato nella elezione del Doge).
Il soffitto e i dipinti della Sala del Senato:
1- Jacopo e Domenico Tintoretto: Venezia seduta tra gli dei riceve i doni del mare
2- Andrea Michieli detto il Vicentino: Venere soprintende all'opera dei Ciclopi nella fucina di Vulcano
3- Antonio Vassilacchi detto l'Aliense: Il doge accoglie storici e poeti
4- Marco Vecellio: I maestri della Zecca coniano monete sorvegliati dai provveditori
5- Tommaso Dolabella: Il doge Pasquale Cicogna adora l'Eucarestia in occasione della consacrazione della chiesa del Redentore
6- Jacopo Robusti il Tintoretto: La Sapienza
7- Jacopo Robusti il Tintoretto: La Verità
8- Marco Vecellio: La Libertà
9- Marco Vecellio: Il Valore Militare
Jacopo e Domenico Tintoretto: Venezia seduta tra gli dei riceve i doni del mare
Con
questo dipinto Tintoretto si conferma pittore ufficiale della
serenissima, rappresentante principale della pittura di carattere
politico-civile del tempo. La tela raffigura (secondo il Ridolfi nel
1648) “Venezia in un cielo cinta da molti Dei, alla quale i Tritoni e le
Nereidi, per ordine di Mercurio arrecano dal mare tributi di
conchiglie, masse di coralli, perle e altre cose preziose, come ad
imperante Regina”. L’impianto compositivo organizzato dinamicamente in
gruppi ordinati lungo direttrici incrociate e semicerchi progressivi,
enfatizza il tono epico della raffigurazione. La complessità del
progetto è stata attribuita esclusivamente a Tintoretto, al quale invece
si affiancarono gli aiuti nella realizzazione dell’opera. La resa delle
figure dei nudi, dalle muscolature accentuate con un gusto realistico, e
le minuziose notazioni descrittive, prevalenti nella parte fantastica
delle divinità marine, è stata ricondotta alla mano del figlio Domenico.
Le interpretazioni simboliche della scena hanno riconosciuto nelle sei
divinità che circondano Venezia e nella figura di vecchio barbuto a
destra, la rappresentazione di un’assemblea del Consiglio, costituita
dai sei consiglieri, dal gran cancelliere e dal doge, sotto cui si
troverebbero altri membri del governo e il popolo veneziano.
Andrea Michieli il Vicentino: Venere soprintende all'opera dei Ciclopi nella fucina di Vulcano
Tommaso Dolabella: Il doge Pasquale Cicogna adora l'Eucarestia in occasione della consacrazione della chiesa del Redentore
Di
Jacopo Palma il Giovane sono invece 4 dipinti votivi, legati a vicende
storiche della Repubblica. Viene qui ricordata l’eroica difesa di
Venezia, simboleggiata mentre lancia il Leone contro il Toro che indica
il resto dell’Europa. Agli inizi del XVI secolo, avendo ulteriormente
allargato i suoi domini sulla terraferma, Venezia si era trovata a dover
fronteggiare una lega tra alcune delle principali potenze europee,
quali Papato, Impero, Francia e Spagna, preoccupate dall’espansione
veneziana. E’ la lega di Cambrai, nei confronti della quale Venezia
otterrà un significativo successo diplomatico nonostante la sconfitta
militare di Agnadello. Al centro del dipinto sta il vecchio doge,
Leonardo Loredan, eroe della resistenza veneziana e sullo sfondo anziché
Agnadello, è rappresentata Padova, riconquistata eroicamente dai
veneziani rovesciando le sorti sfortunate della guerra.
SALA DEL CONSIGLIO DEI DIECI
Il
Consiglio dei Dieci fu istituito in seguito alla congiura ordita nel
1310 da Bajamonte Tiepolo e altri nobili per rovesciare le istituzioni
statali. Essendo stato costituito per giudicare gli aderenti al
complotto, avrebbe dovuto essere un organo provvisorio, ma finì col
diventare permanente. Le sue competenze si estesero ad ogni settore
della vita pubblica: ortodossia religiosa, politica estera, spionaggio,
difesa dello Stato. Da qui il sorgere del mito di un tribunale potente,
occhiuto e spietato al servizio dell’oligarchia dominante, le cui
sentenze venivano emesse in tempi rapidissimi e con rito segreto.
L’assemblea era composta da dieci membri scelti dal Senato ed eletti dal
Maggior Consiglio, a cui si aggiungevano il Doge e i suoi sei
consiglieri. Di qui i 17 riquadri a semicerchio, che ancora si notano
nella sala. La decorazione del soffitto si deve a Gian Battista Ponchino
in collaborazione con il giovane Paolo Veronese e Gian Battista
Zelotti. Intagliato e dorato, è diviso in 25 scomparti con all’interno
divinità ed allegorie che illustrano il potere del Consiglio, il cui
compito, ad immagine del tribunale celeste, era di punire i crimini e
liberare l’innocente.
L’interpretazione
dei singoli quadri è particolarmente complessa, a causa dell’ambiguità
delle figure mitologiche e della tendenza degli ideatori dei programmi a
sovrapporre significati legati all’ideologia veneziana a quelli
tradizionali. Celebri i dipinti di Veronese, dal Vecchio orientale a Giunone che sparge i suoi doni su Venezia, mentre l’ovale al centro con Giove che scende dal cielo a fulminare i vizi è una copia di Jacopo D’Andrea dell’originale di Veronese, portato al Louvre da Napoleone Bonaparte alla fine del Settecento.
Il soffitto e i dipinti della Sala del Consiglio dei Dieci:
1- Copia di Jacopo d'Andrea dal Veronese: Giove fulmina i Vizi
2- Giambattista Ponchino: Mercurio e Minerva
3- Giambattista Ponchino: Nettuno su cocchio marino
4- Giovanni Battista Zelotti: Venere tra Marte e Nettuno
5- Giovanni Battista Zelotti: Giove e Giunone
6- Paolo Caliari il Veronese: Giunone che offre il corno ducale, gemme e oro a Venezia
7- Giovanni Battista Zelotti: Venezia sul globo e sul leone
8- Paolo Caliari il Veronese: Matrona con nell'alto divinità, che spezza ceppi e catene
9- Paolo Caliari il Veronese: Vecchio orientale con turbante seduto presso una giovane donna
Copia di Jacopo d'Andrea da Paolo Caliari detto Veronese: Giove fulmina i vizi
Paolo Caliari detto Veronese: Giove fulmina i vizi (originale conservato al Louvre)
Paolo Caliari detto Veronese: Vecchio orientale e giovane donna (1553-1555)
Paolo Caliari detto Veronese: Giunone che offre il corno ducale, gemme e oro a Venezia (1553-1556)
Anche
questa tela venne asportata nel 1797 dalle truppe napoleoniche, per
essere trasferita a Bruxelles; è ritornata al suo posto solo nel 1820.
Vi è raffigurata Giunone che dall’alto fa piovere su Venezia –
rappresentata come d’abitudine nelle vesti di una giovane donna
bellissima, vestita “alla moderna”, con ai piedi il leone che
simboleggia la città – le insegne del potere, il corno dogale, la
corona, il serto d’alloro, ma anche denari e gioielli, a sottolineare la
potenza economica dello Stato veneziano. La tela costituisce uno
splendido esempio della eccezionale bravura del giovane artista, sia per
le vivissime qualità coloristiche, caratterizzate da toni forti e
vibranti e da una notevolissima luminosità, che contribuiscono a
conferire alla scena una profondità fittizia irraggiungibile per gli
altri pittori – il Ponchino e lo Zelotti – impegnati nella decorazione
della stessa sala, sia per la raffinata eleganza delle figure, sia
infine per la superba capacità di collocare le grandiose figure nello
spazio, contro il cielo azzurro, percorso da nubi.
Giambattista Ponchino: Mercurio e Minerva
Giovanni Battista Zelotti: Venere tra Marte e Nettuno
Giovanni Battista Zelotti: Giove e Giunone
Giovanni Battista Zelotti: Venezia sul globo e sul leone
Alle pareti troviamo:
- Marco Vecellio: Incontro di Carlo V e Clemente VII nel 1530 a Bologna
-
Francesco e Leandro Bassano: Papa Alessandro III benedice il doge
Sebastiano Ziani, vincitore nel 1176 della battaglia di punta Salvore
- Antonio Vassilacchi detto l'Aliense: Adorazione dei Magi
Marco Vecellio: Incontro di Carlo V e Clemente VII nel 1530 a Bologna (totale e due particolari)
Francesco e Leandro Bassano: Papa Alessandro III benedice il doge Sebastiano Ziani (dettaglio)
SALA DELLA BUSSOLA
Inizia
da questa sala la serie degli spazi dedicati alle funzioni della
Giustizia. Ed è appunto la statua della Giustizia che sormonta la grande
bussola lignea che dà il nome alla stanza, maschera l’angolo e conduce
nelle stanze dei Tre Capi del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori
(visitabili solo nel corso della visita agli Itinerari Segreti).
Questa
sala era dunque utilizzata come anticamera per coloro che erano stati
convocati dal potente magistrato. E’ dunque un’anticamera, peraltro
lussuosamente arredata: il controsenso è solo apparente, perché la
magnificenza della decorazione mirava ad enfatizzare la solennità del
rituale giuridico-politico dello Stato marciano, che qui trovava uno dei
suoi cardini più efficaci e più celebrati.
La
sistemazione della sala risale alla metà del XVI secolo; anche questo
soffitto fu affidato al Veronese, che ne completò la decorazione nel
1554 con opere volte all’esaltazione del “buon governo” della
Serenissima. La tela centrale con San Marco che scende ad incoronare le
tre Virtù teologali è una copia di un originale oggi al Louvre.
Il grande camino posto tra le finestre fu ideato da Jacopo Sansovino nel 1553-54.
LIAGÒ
Nel
percorso di visita si accede a questa stanza dopo la visita al secondo
piano, provenendo dall’armeria. Nel dialetto veneziano “liagò” significa
veranda o terrazzo chiuso da vetrate. Questo ambiente serviva da
passeggio e ritrovo per i patrizi nelle intervalli delle frequenti
sedute del Maggior Consiglio. Il soffitto di travi dipinte e dorate
risale alla metà del Cinquecento, mentre le tele alle pareti sono del
Sei-Settecento. Sono esposte qui tre importanti sculture: Adamo, Eva e
Portascudo. Sono gli originali delle opere concepite per decorare le
facciate dell’Arco Foscari nel cortile del Palazzo; capolavoro di
Antonio Rizzo, realizzate tra il 1462 ed il 1471.
Modi
di Antonio Balestra: Il doge Giovanni Cornaro assistito dalla Fede e
presentato sa San Marco alla Vergine e a San Gregorio Magno
QUARANTIA CIVIL VECCHIA
La
Quarantia, creata dal Maggior Consiglio pare già alla fine del XII
secolo, era il massimo organo di appello dello Stato veneziano.
Originariamente era un unico organismo formato da quaranta membri dotati
di ampi poteri, politici e legislativi. Nel corso del XV secolo le
quarantie divennero tre: Quarantia Criminal (per le sentenze nell’ambito
che oggi chiameremmo penale), Quarantia Civil Vecchia (per le cause
civili in territorio veneziano), Quarantia Civil Nuova (per le cause
civili in terraferma).
La
sala venne restaurata nel XVII secolo, ma reca ancora, dell’antica
decorazione, un frammento di affresco visibile vicino all’entrata a
destra. Le tele che vi sono collocate attualmente risalgono al Seicento.
SALA DELL’ARMAMENTO O DEL GUARIENTO
La
sala, un tempo collegata all’Armeria da una scala, ospita oggi ciò che
resta dell’affresco realizzato dal Guariento verso il 1365 per la sala
del Maggior Consiglio, quasi completamente distrutto da un incendio del
1577. Fu ritrovato nel 1903 sotto la tela del Paradiso del Tintoretto;
anche l’opera del Guariento rappresentava il Paradiso, con al centro
Maria in trono incoronata dal figlio, mentre ai due lati estremi, sotto
edicole raffiguranti la facciata di una chiesa con portico, si vede
l’Annunciazione con l’Angelo Gabriele a sinistra e la Vergine a destra.
Intorno, angeli musicanti ed Evangelisti sotto il trono, con a fianco
Beati, Patriarchi e Profeti in stalli traforati. I frammenti sono
ridotti pressoché a monocromi a causa del calore. A tratti,
dall’intonaco caduto emergono le rosse sinopie del disegno preliminare.
Guariento: L'incoronazione della Vergine (e particolare)
SALA DEL MAGGIOR CONSIGLIO
E’ la sala più grande e maestosa di Palazzo Ducale e, con i suoi 53 metri
di lunghezza e 25 di larghezza, è una delle più vaste d’Europa. Qui si
tenevano le assemblee della più importante magistratura dello stato
veneziano: il Maggior Consiglio organismo molto antico, era formato da
tutti i patrizi veneziani, a prescindere dal prestigio, dai meriti o
dalle ricchezze. Per questo, nonostante col tempo il Senato tendesse a
limitarne i poteri, esso fu sempre sentito come il baluardo dell’antica
uguaglianza repubblicana, sia pure ristretta al solo ambito nobiliare.
Il Maggior Consiglio aveva diritto di controllo su tutte le altre
magistrature e cariche dello Stato che, quando esorbitavano troppo dai
loro poteri, venivano prontamente ridimensionate. I 1200-2000 nobili che
lo costituivano non cessarono mai, infatti, di sentirsi gli autentici
depositari del diritto statale. In questa sala si effettuavano anche le
prime fasi dell’elezione del doge che proseguivano in quella dello
Scrutinio. Le procedure erano estremamente lunghe e complesse per
evitare possibili brogli elettorali. Ogni domenica, al suono della
campana di San Marco, i membri si riunivano sotto la presidenza del Doge
che sedeva al centro della pedana, mentre i consiglieri occupavano
seggi disposti secondo la lunghezza della sala in file doppie, dandosi
la schiena.
Ristrutturata
nel corso del XIV secolo, era decorata dall’affresco del Guariento e da
opere dei più famosi artisti dell’epoca. Nel dicembre del 1577 un
incendio divampato nella vicina sala dello Scrutinio le distrusse,
danneggiando gravemente anche la struttura della sala. Venne quindi
avviata una decorazione che vide impegnati artisti come Veronese,
Tintoretto, Palma il Giovane, secondo un programma che prevedeva alle
pareti episodi della storia veneziana con particolare riferimento ai
rapporti col papato e l’impero, sul soffitto le gesta di cittadini
valorosi e le Virtù, mentre lo spazio centrale era riservato alla
glorificazione della repubblica.
I DIPINTI ALLE PARETI:
PARETE EST (dietro la tribuna):
Jacopo Tintoretto e aiuti: Il Paradiso
Tintoretto e bottega: Paradiso
Lungo
un’intera parete, dietro al trono, si staglia la più grande tela del
mondo, il Paradiso, realizzata da Jacopo Tintoretto e dalla sua bottega
tra il 1588 ed il 1592
Tintoretto
cominciò il telero nel 1588, dopo la morte del Veronese che con il
Bassano aveva ricevuto l’incarico dell’opera. Ridolfi (1648) dice che
Tintoretto “aggravato dagli anni” si valse “per l’ultima mano”
dell’aiuto del figlio Domenico. Sulle nuvole stanno gli Evangelisti, i
Patriarchi, gli Apostoli, i Padri della Chiesa, i martiri, gli angeli,
attratti dal centro dell’insieme dove campeggiano Cristo e la Vergine..
Cristo ha in mano il globo terrestre con la croce, nel ruolo di sol iustitiae
e indossa il mantello che il doge portava in San Marco il Venerdì
Santo. La vergine si inginocchia davanti a lui intercedendo per Venezia e
gli arcangeli Michele e Gabriele volano verso di loro con i simboli di
misericordia e giustizia. La figura del “doge celeste” si colloca sopra
il trono dove siede il doge, quasi ad indicare come egli sia
l’ispiratore del suo operato.
PARETE NORD ( a destra, volgendo le spalle al Paradiso):
Una
serie di tele raffigura la partecipazione (leggendaria) del doge
Sebastiano Ziani alla lotta tra il papa Alessandro III e l'imperatore
Federico Barbarossa. Cominciando dalla tribuna:
1-
Benedetto e Carletto Caliari: Il doge Sebastiano Ziani riconosce il
papa Alessandro X fuggito a Venezia nel convento della Carità
2- Benedetto e Carletto Caliari: Gli ambasciatori del Papa e di Venezia partono per recare al Barbarossa proposte di pace
3- Leandro Bassano: Il papa in S. Marco dona al doge Ziani il cero bianco, uno dei segni dell'autorità dogale
4- Jacopo Tintoretto e aiuti: Gli ambasciatori ricevuti in Pavia dal Barbarossa chiedono la pace per il papa Alessandro III
5- Francesco Bassano: Il doge, sul punto di salpare con la flotta contro il Barbarossa, riceve dal papa la spada benedetta
6- Paolo Fiammingo: Il doge, sul punto di partire con l'armata, benedetto dal Papa
7- Domenico Tintoretto: Vittoria di punta Salvore e cattura di Ottone, figlio del Barbarossa, e di molti baroni
8- Andrea Vicentino: Il doge presenta Ottone al Papa e riceve l'anello con cui ogni anno si celebrerà poi lo sposalizio del mare
9- Palma il Giovane: Il Papa permette a Ottone di recarsi presso il padre per trattare la pace
10- Federico Zuccari: Nell'atrio di S. Marco il Barbarossa bacia il piede al papa
11-
Girolamo Gambarato: Il Papa giunge su navi veneziane ad Ancona,
accompagnato dal Barbarossa e dal doge, e dona a questo un'ombrella
d'oro, altro simbolo d'autorità
Benedetto
e Carletto Caliari: Gli ambasciatori del Papa e di Venezia partono per
recare al Barbarossa proposte di pace (2 particolari)
Leandro Bassano: Il papa in S. Marco dona al doge Ziani il cero bianco, uno dei segni dell'autorità dogale
Francesco Bassano: Il doge, sul punto di salpare con la flotta contro il Barbarossa, riceve dal papa la spada benedetta
Paolo Fiammingo: Il doge, sul punto di partire con l'armata, benedetto dal Papa
Domenico Tintoretto: Vittoria di punta Salvore e cattura di Ottone
(sotto, un particolare)
Federico Zuccari: Il Barbarossa bacia il piede al Papa
Girolamo Gambarato: Il Papa giunge su navi veneziane ad Ancona
PARETE OVEST (di fronte al Pardiso):
1-
Giulio Del Moro: In S. Giovanni in Laterano il Papa dona al doge 8
stendardi bianchi, rossi e turchini, trombe, cuscino e sedia d'oro
2- Paolo Caliari detto il Veronese: Ritorno vittorioso da Chioggia del doge Andrea Contarini, dopo la disfatta dei Genovesi
3- Antonio Vassilacchi detto l'Aliense: Baldovino incoronato nella piazza di S. Sofia
Sopra le finestre: Marco Vecellio: 2 figure allegoriche
Paolo Caliari detto il Veronese: Ritorno vittorioso da Chioggia del doge Andrea Contarini
PARETE SUD:
Vi è rappresntata la partecipazione di Venezia alla quarta crociata (cominciando ancora dalla tribuna):
1-
Carlo Saraceni, opera terminata da Jean Le Clerc: Il doge Enrico
Dandolo nonagenario e i capitani dei Crociati giurano in S. Marco i
patti
2- Andrea Vicentino: I Crociati, al comando del doge, assalgono Zara
3- Domenico Tintoretto: Resa di Zara
4- Andrea
Vicentino: Alessio Comneno, figlio del diseredato imperatore di
Costantinopoli, giunge a Zara a invocare l'aiuto dei Crociati per
scacciare dal trono lo zio Alessio usurpatore e rimettervi il proprio
padre Isacco
5- Palma il Giovane: Assalto di Costantinopoli
6- Domenico Tintoretto: Presa di Costantinopoli
7- Andrea Vicentino: In S. Sofia i Crociati eleggono imperatore d'Oriente Baldovino di Fiandra
(il ciclo si completa con la tela dell'Aliense nella parete Ovest)
Carlo Saraceni-Jean Le Clerc: Il doge Enrico Dandolo nonagenario e i capitani dei Crociati giurano in S. Marco i patti
Andrea Vicentino: I Crociati, al comando del doge, assalgono Zara (particolare)
Andrea Vicentino: I Crociati, al comando del doge, assalgono Zara (particolare)
Domenico Tintoretto: Resa di Zara
Palma il Giovane: Assalto di Costantinopoli
Domenico Tintoretto: Presa di Costantinopoli
Immediatamente
sotto il soffitto corre un fregio con i ritratti dei primi 76 dogi
della storia veneziana (gli altri si trovano nella sala dello
Scrutinio). Si tratta di effigi immaginarie, visto che quelle precedenti
il 1577 furono distrutte nell’incendio, commissionate a Jacopo
Tintoretto ma eseguite in gran parte dal figlio Domenico. Sul cartiglio
che ogni doge tiene in mano sono riportate le opere più importanti del
suo dogado. Il doge Marin Faliero, che tentò un colpo di stato nel 1355,
è rappresentato da un drappo nero: condannato in vita alla
decapitazione e alla damnatio memoriae, ossia alla
cancellazione totale del suo nome e della sua immagine, come traditore
dell’istituzione repubblicana. Su fondo nero c'è l'iscrizione: «Hic est locus Marini Falethri, decapitati pro criminibus».
Sul soffitto, in corrispondenza di ogni ritratto, il relativo stemma.
Domenico Tintoretto: Il doge Francesco Donato
Domenico Tintoretto: Il doge Giovanni Mocenigo
Domenico Tintoretto: Il doge Marco Barbarigo
Domenico Tintoretto: Il doge Pietro Lando
I ritratti di Andrea Dandolo e di Marin Faliero
1- Paolo Caliari detto il Veronese: Antonio Loredan dirige l'assalto per liberare Scutari dall'assedio di Maometto II
2-
Francesco Bassano: L'esercito e la flotta veneziani, comandati da
Damiano Modo, espugnano le difese del duca Ercole I d'este a Polesella
3-
Jacopo Tintoretto e aiuti: Vittore Soranzo porta la flotta veneziana
sul Po alla vittoria di Argenta contro le milizie del duca Ercole I
d'Este
4- Jacopo Tintoretto e aiuti: Jacopo Marcello conquista Gallipoli in Puglia sgominando le truppe aragonesi del re di Napoli
5- Francesco Bassano: Giorgio Cornaro e Bartolomeo d'Alviano sconfiggono nel Cadore gli imperiali di Massimiliano I
6- Palma il Giovane: Andrea Gritti riprende Padova alle truppe della lega di Cambrai entrandovi da porta Codalunga
7-
Palma il Giovane: Venezia, incoronata dalla Vittoria, accoglie i popoli
vinti e le province soggette che circondano il suo trono regale
8-
Jacopo Tintoretto e aiuti: Venezia, circondata da deità marine, porge
un ramo d'ulivo al doge Nicolò Da Ponte che le presenta gli omaggi del
senato e i doni delle province soggette
9- Paolo Caliari detto Veronese: Apoteosi di Venezia circondata da divinità e incoronata dalla Vittoria
10- Paolo Caliari detto Veronese: Pietro Mocenigo prepara l'assalto per prendere Smirne ai Turchi
11- Francesco Bassano: Michele Attendolo guida i Veneziani alla vittoria di Casalmaggiore sui Viscontei
12-
Jacopo Tintoretto e aiuti: Stefano Contarini conduce la flotta
veneziana del lago di Garda alla vittoria di Riva sulla flotta viscontea
13-
Jacopo Tintoretto e aiuti: I Veneziani guidati da Francesco Barbaro
aiutano i Bresciani a rompere l'assedio di Filippo Maria Visconti
14-
Francesco Bassano: Il Carmagnola guida i Veneziani alla vittoria di
Maclodio contro le truppe milanesi di Filippo Maria Visconti
15- Palma il Giovane: Francesco Bembo guida la flotta veneziana del Po alla vittoria di Cremona contro i Viscontei
L’ultimo
grande impegno di Veronese a Palazzo Ducale fu la realizzazione, tra il
1579 e il 1582, del ciclopico programma di ridecorazione delle grandi
sale assembleari (Maggior Consiglio e Scrutinio) dopo l’incendio
scoppiato nella notte del 20 dicembre del 1577. All’architetto, pittore e
cartografo veronese Cristoforo Sorte fu dato incarico del disegno del
soffitto, suddiviso in riquadri e scomparti e ricchissimamente ornato di
sculture e intagli a volute, mascheroni, cartouches e fregi tutti dorati.
Paolo realizzò con l’immenso ovale del Trionfo di Venezia (Pax Veneta),
che misura più di nove metri sull’asse maggiore e quasi sei sul minore,
il dipinto che meglio si adatta all’elaborato schema di cornici di
gusto manieristico progettato dal Sorte; infatti la grandiosa
architettura di Paolo, con cornicioni e terrazze rette da enormi colonne
tortili, pare continuare, all’interno della tela, le fantasiose
strutture lignee esterne.
Su
una nube troneggia la figura di Venezia, contornata dalle divinità che
ne simboleggiano il potere economico e politico, raffigurate come una
corte opulenta di magnifiche donne ignude e di magniloquenti signori.
Più sotto, dalla balconata, si affacciano numerosi nobiluomini, dame
elegantissime e alcuni prelati, mentre nel livello inferiore hanno
trovato posto il popolo e i guerrieri, montati su scalpitanti destrieri.
Nell’insieme trionfa ancora una volta la splendida felicità decorativa
veronesiana, che si fa gioisa grazie alla qualità luminosissima del
colore, steso a larghe campiture con ripetuti effetti di cangiante e di
controluce.
Ai
lati di questo ovale sono collocate altre due tele di Paolo con scene
belliche (Difesa di Scutari e Presa di Smirne) di minor importanza e
interesse, anche se non prive di qualità. Va infine ricordato che Paolo
partecipò (e vinse, sia pure assieme a Jacopo Bassano) il primo dei
concorsi per la realizzazione del cosiddetto Paradiso sulla
parete di fondo del Maggior Consiglio, ma non se ne fece nulla. Dopo la
morte di Paolo (1588) fu bandito un altro concorso, vinto dal
Tintoretto, che realizzò la celebre tela oggi esistente.
Paolo Caliari detto Veronese: Apoteosi di Venezia
(sotto un particolare)
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Vittore Soranzo porta la flotta veneziana sul Po alla vittoria di Argenta
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Venezia porge un ramo d'ulivo al doge Nicolò Da Ponte
SALA DELLO SCRUTINIO
Si
entra, da questa sala, nell’ala del palazzo edificata nel XV secolo.
Erano custoditi qui, prima della costruzione della Libreria Marciana, i
preziosi codici che il Petrarca e il cardinal Bessarione avevano
lasciato in eredità allo stato veneziano. In seguito, nel 1532, si
decise di svolgere in questa sala anche gli scrutini delle votazioni per
le lezioni delle varie cariche statali, compresa quella del doge.
L’attuale
decorazione venne eseguita tra il 1578 e il 1615. Il ricco soffitto,
disegnato dal pittore-cartografo Cristoforo Sorte, illustra diverse
vittorie militari dei veneziani.
1- Andrea Vicentino: Vittoria sui Pisani nelle acque di Rodi
2- Francesco Montemezzano: Acri tolta ai Genovesi
3- Niccolò Bambini: Il doge Domenico Michiel ricusa il dominio di Sicilia
4- Aliense: Morte di Ordelaffo Falier sotto le mura di Zara
5- Camillo Ballini: Vittoria dei Veneziani sui Genovesi presso Trapani
6- Giulio del Moro: I Veneziani comandati da Giovanni Soranzo tolgono Caffa ai Genovesi
7- Giulio del Moro: Il doge Enrico Dandolo rifiuta la corona d’Oriente
8- Aliense: Pietro Ziani rifiuta il dogado per farsi monaco
9- Francesco Bassano: I Veneziani conquistano Padova a Francesco da Carrara
Tutt’intorno
al soffitto ci sono delle Virtù degli stessi artisti, mentre attorno ai
dipinti numerati 1, 5 e 9 ci sono 12 figure allegoriche attribuite a
Giulio Licinio. Fra le pareti e il soffitto continua la fascia con i
ritratti dei dogi veneziani (da Lorenzo Priuli a Lodovico Manin).
Alle
pareti, nel fondo, un solenne arco trionfale di tipo classico romano fu
eretto in onore di Francesco Morosini il Peloponnesiaco, morto nel 1494
durante la vittoriosa guerra con la quale i veneziani strapparono ai
Turchi la Morea; l’arco è decorato da allegorie del doge vittorioso.
Alla
parete di fronte all’arco di trionfo, si trova il Giudizio Universale
di Palma il Giovane, mentre alle pareti laterali 10 grandi tele
illustrano le battaglie vinte dai Veneziani dall’809 al 1656:
particolarmente suggestivo il dipinto con La battaglia di Lepanto di Andrea Vicentino, del 1571, in
cui il doge Sebastiano Venier è rappresentato armato a capo scoperto
sulla poppa della sua galea a destra in primo piano. Potrebbe stupire
tutta questa celebrazione della virtù guerriera in una sala che, per la
sua delicata funzione, avrebbe piuttosto richiesto una decorazione volta
all’esaltazione della saggezza politica, ma questo ambiente fu
progettato appunto dopo la battaglia di Lepanto (1571) in un momento
perciò di grande esaltazione e orgoglio per la vittoria ottenuta.
Notevole forza di suggestione ha anche La vittoria dell’esercito veneziano a Zara contro gli Ungheresi,
di Jacopo Tintoretto, dipinta tra il 1582 ed il 1587. gli altri dipinti
sono di Sante Peranda, l’Aliense, Marco Vecellio, Pietro Bellotti,
Pietro Liberi e altri.
Andrea Michieli detto Vicentino: La battaglia di Lepanto
(sotto, due particolari)
SALA DELLA QUARANTIA CRIMINAL E SALA DEI CUOI
L’organismo
della Quarantia Criminal era di grande importanza: poiché i suoi membri
facevano parte anche del Senato, potevano essere investiti anche di
poteri legislativi. La sala è decorata da stalli lignei del XVII secolo;
la stanza successiva ne costituiva l’archivio: si presume perciò che le
sue pareti fossero rivestite di scaffalature ed armadi, dei quali vuol
rendere un’idea quello addossato al muro di fondo: mobile non
originario, come del resto i “cuoridoro”, cioè i cuoi ricamati in oro
sulle altre pareti.
Sala della Quarantia Criminal
Sala dei cuoi
SALA DEL MAGISTRATO ALLE LEGGI
Questa
era la sala che ospitava la magistratura dei Conservatori ed esecutori
delle leggi e ordini degli uffici di San Marco e di Rialto, creata nel
1553 ed affidata a tre patrizi che avevano il compito di far osservare
la normativa che regolava l’avvocatura. In una città-stato come Venezia,
città mercantile per eccellenza, il settore giudiziario rivestiva
enorme importanza (si pensi in primo luogo allo sterminato numero di
cause, liti e processi innescati dalla presenza di un vasto mercato come
quello di Rialto), anche perché basato non sul diritto imperiale o
comune o romano, ma su di una prassi del tutto peculiare alla città
lagunare.
In
questa stanza sono stati collocati gli straordinari trittici di
Hieronymus Bosch, lasciati in eredità a Venezia dal cardinale Domenico
Grimani. Quattro tavole raffigurano la Caduta dei dannati, l’Inferno, il Paradiso terrestre e l’Ascesa dei beati all’Empireo. Sempre di Bosch sono il Trittico degli eremiti e il Trittico di Santa Giuliana.
Hieronymus Bosch: Paradiso terrestre (1490 circa)
Uomini
e donne, accompagnati da angeli, si muovono in un paesaggio collinoso, a
balze, e volgono lo sguardo verso una fontana della vita disposta in
alto, sulla sommità di una collina. Sullo sfondo a destra si vede un
leone nell’atto di divorarne un altro, simbolo dell’anticipo della
corruzione che verrà a interrompere l’esistenza ideale del paradiso.
Hieronymus Bosch: Ascesa all’Empireo (1490 circa)
Quest’opera
è resa impressionante dalla straordinaria invenzione dell’ingresso a
cilindro a fasce concentriche, probabilmente desunto dalla tradizione
delle miniature tardo-medievali. Bosch trasforma il richiamo
iconografico in una creazione fantastica: le anime sembrano come
attratte. Risucchiate dalla luce e dal colore, si muovono a zig-zag, dal
basso verso l’alto, con graduale perdita del loro peso e degli angeli
accompagnatori, fino al raggiungimento della luce.
Hieronymus Bosch: Caduta dei dannati (1490 circa)
Anche
in questo caso siamo di fronte a una straordinaria invenzione: le anime
non ascendono, ma all’opposto sembrano sprofondare, inseguite dai
demoni, nell’oscurità di un paesaggio visionario. I toni cupi, accesi
solo da qualche bagliore che lascia intravedere i contorni delle poche
figure, conferiscono alla scena un’assoluta drammaticità.
Hieronymus Bosch: Inferno(1490 circa)
Abitualmente
raffigurato da Bosch con un’infinità di ignudi e di demoni torturatori,
l’Inferno qui è ridotto all’essenziale, quasi a un’unica figura in
primo piano dalla stupefacente modernità: l’angoscioso sogno, o meglio
incubo, dell’anima ignuda che si sorregge il capo quasi in atto di
totale scoramento, mentre un diavolo la tormenta. Vicino qualche altra
figura di dannato e di demone che galleggiano nel mare infernale e sullo
sfondo una rupe spaventosa e fiabesca con fiamme sulla cima e bagliori
intorno a rischiarare la totale oscurità.
Hieronymus Bosch: Trittico degli eremiti: San Gerolamo (1493 circa)
Questo
è il pannello centrale di un trittico costituito dai tre anacoreti,
raffigurati ognuno su una tavola. Nel pannello centrale è raffigurato
san Gerolamo inginocchiato tra le rovine di un edificio pagano e in
preghiera, con il crocifisso poggiato sui resti di un trono che funge da
altare. I rilievi su questo alludono alle possibilità di redenzione
(Giuditta e Oloferne e un cavaliere con un liocorno). Intorno sono
disseminati gli elementi malefici: la innaturale vegetazione, lo zoccolo
dell’idolo, con la figura di un adulatore del sole e della luna, e il
rilievo nella parte inferiore del trono con un uomo che si tuffa in un
alveare coprendosi di miele, variamente interpretato dalla critica come
allusione all’amore carnale o in termini alchemici con significato di
unione sessuale.
Hieronymus Bosch: Trittico degli eremiti: Sant’Antonio (1493 circa)
Sant’Antonio
è immerso in un paesaggio notturno con un villaggio in fiamme sullo
sfondo, con chiaro riferimento al fuoco suo abituale attributo,
collegato alla malattia detta “fuoco di sant’Antonio” o al suo potere di
proteggere dalle fiamme. Il santo è raffigurato nei pressi di uno
stagno, nell’atto di attingere l’acqua impura con una brocca; intorno a
lui le visioni che tormentano le sue ascetiche meditazioni, in primo
luogo la donna nuda nell’acqua presso l’albero cavo, qui rappresentata
insieme a un uomo, seminascosto dal drappeggio. Sotto la figura
femminile si trova quella di un diavolo-pesce nell’atto di versare vino
da una brocca e di numerosi altri demoni-grilli: il diavolo nano che
legge un messale, un demone pavone, un grillo formato solo dalla testa e
dalle gambe.
Hieronymus Bosch: Trittico degli eremiti: Sant’Egidio (1493 circa)
Sant’Egidio
prega in una cappella costituita da una grotta, inginocchiato davanti
ad un altare dal quale pende un rotolo che, in base alla Leggenda aurea,
sarebbe stato deposto da un angelo e recherebbe tutti i nomi di coloro
che saranno salvati per intercessione del santo. Egli è trafitto nel
petto da una freccia a simboleggiare quella destinata dai cacciatori
alla sua cerbiatta nutrice, rappresentata ai suoi piedi.
Hieronymus Bosch: Trittico della martire crocifissa (1497 circa)
Sullo scomparto di sinistra è rappresentata una città in fiamme occupata dai demoni e abbandonata dagli abitanti terrorizzati. Il soggetto non ha alcuna relazione con lo scomparto centrale nel quale figura la crocifissione di una santa (santa Liberata o santa Giulia). Nello scomparto di destra sono dipinte, in primo piano, due figure (un monaco e un soldato), sullo sfondo un porto con navi affondate.
Le incongruenze tra le ante laterali e lo scomparto centrale hanno fatto pensare che le ante fossero state preparate per un’altra opera e accostate solo in seguito al pannello centrale.
Sulla parete opposta troviamo altri due esponenti della pittura fiamminga: il Monogrammista J S il cui Inferno, a differenza di quello di Bosch, si popola di figure fantastiche e bizzarre e Quentin Metsys nel cui Cristo deriso
il contrasto tra bene e male si identifica con quello tra il bello,
rappresentato dal Cristo, ed il brutto dei suoi tormentatori.
Quentin Metsys: Cristo deriso
LE SALE ISTITUZIONALI NEL PIANO DELLE LOGGE
SALA DEI CENSORI
Torniamo
a percorrere le sale dedicate agli organi di giustizia. La magistratura
dei Censori nacque nel 1517, su iniziativa di Marco Foscari di
Giovanni, cugino del doge Andrea Gritti e nipote del grande Francesco
Foscari. La sua denominazione e le incombenze sono riconducili alla
temperie politico-culturale umanistica: i Censori non erano infatti un
organo giudicante, ma consulente, soprattutto sul piano morale, come si
evince dal numero dei suoi membri, che erano due, ossia teoricamente
incapaci di esprimere una maggioranza. Loro compito era quello di
reprimere il broglio, la corruzione elettorale, difendendo così
l’integrità delle istituzioni pubbliche.
Alle
pareti una serie di dipinti di Domenico Tintoretto ritraggono alcuni
magistrati e, al di sotto, gli stemmi di coloro che ricoprirono tale
carica.
SALA DELL’AVOGARIA DE COMUN
L’Avogaria
de Comun era un’antichissima magistratura, come indica lo stesso nome:
risale infatti all’epoca comunale (XII secolo). Compito dei tre
avogadori era di tutelare il principio di legalità, ossia la correttezza
nell’applicazione delle leggi. Gli avogadori non raggiunsero mai il
prestigio ed il potere dei dieci, tuttavia rimasero pur sempre una delle
magistrature più autorevoli sino alla caduta della Repubblica.
Vegliavano inoltre sulla purezza del corpo aristocratico, ossia sulla
legittimità dei matrimoni e delle nascite dei patrizi iscritti al Libro
d’oro, la cui compilazione era appunto affidata all’Avogaria.
In questa sala alcuni avogadori sono ritratti in atto di devozione di fronte alla Vergine, al Cristo risorto e ai santi.
La
classe nobiliare veneziana trasse origine dalla “Serrata” del Maggior
Consiglio del 1297, ma solo più tardi, agli inizi del ‘500, venne decisa
una serie di restrizioni a tutela dell’aristocrazia: vietati i
matrimoni tra patrizi ed appartenenti a diverse classi sociali,
incrementati i controlli sui titoli di nobiltà, ecc. La competenza di
questa materia fu delegata all’Avogaria del Comun, cui venne pure
affidata la compilazione del Libro d’oro delle nascite, nel quale erano
registrate le fedi di battesimo dei patrizi; divenne poi obbligatorio
per ogni patrizio produrre all’Avogaria pure il certificato di
matrimonio, qualunque fosse la condizione sociale della moglie. Esisteva
inoltre un Libro d’argento in cui erano descritte le famiglie
dell’ordine cittadino originario, ossia quelle che, accanto ai requisiti
di “civiltà” e “onorevolezza”, potevano vantare un’antica origine
veneziana: esse fornivano allo Stato i quadri della burocrazia, a
cominciare dalla Cancelleria ducale.
Il
Libro d’oro e quello d’argento erano custoditi in uno scrigno collocato
in questa sala, dentro un armadio che conteneva anche tutti i documenti
inerenti alla legittimità dei titoli. Quello che si vede qui occupa i
tre lati di una nicchia, è settecentesco, laccato di bianco con
decorazioni in oro.
Formato
da una ventina di patrizi tratti dal Senato e dal Maggior Consiglio,
questo organo, istituito a metà del XVI secolo, aveva il compito di
reclutare gli equipaggio per le galere da guerra, compito non facile,
dato il gran numero di persone necessarie all’ampia flotta veneziana. Al
contrario di quanto si potrebbe credere, venivano assoldati in primo
luogo vogatori liberi tratti dal mondo produttivo veneziano, ossia dalle
corporazioni di arti e mestieri che erano ritenute le più dirette
interessate alla salvaguardia della patria. Affine a questa magistratura
era quella denominata dei Provveditori all’armar, le cui competenze
concernevano però soprattutto l’allestimento e il disarmo delle navi,
cioè gli scafi e le provviste di bordo.
Gli arredi a dossali sono cinquecenteschi, mentre le torciere a muro risalgono al XVIII secolo.
L’ARMERIA
Le
sale dell’Armeria costituiscono oggi un prezioso museo di armi e
munizioni di diversa provenienza, il cui nucleo è documentato fin dal
XIV secolo; al tempo della Repubblica era affidato alle cure del
Consiglio dei X e caratterizzato da strumenti bellici prontamente
fruibili da parte degli armigeri di guardia al Palazzo e, nelle
congiunture più delicate, dagli arsenalotti, cioè le maestranze,
estremamente qualificate e organizzate del grande complesso
dell’Arsenale. Alla morte del doge, ad esempio, le porte del Palazzo
venivano sbarrate e la loro custodia affidata appunto agli arsenalotti;
di norma, poi, un gruppo di questi presidiava la Loggetta del campanile
durante le sedute del Maggior Consiglio. La collezione d’armi,
arricchita da preziosi cimeli, venne parzialmente dispersa dopo la fine
della repubblica. Oggi consta di oltre duemila pezzi.
SALA
I – La prima sala è detta del Gattamelata per l’armatura finemente
cesellata e attribuita al condottiero Erasmo da Narni, detto appunto
Gattamelata, che vi è esposta, assieme ad una notevole serie di altri
esemplari cinquecenteschi da combattimento pesante e leggero, a cavallo o
a piedi e da torneo. Curiosa quella da bambino (o da nano?) rinvenuta
sul campo di battaglia di Marignano nel 1515. La sala ospita inoltre
vari modelli di spade di varie epoche e modelli di balestre con i
caratteristici turcassi in cuoio dipinto o stampato per il ricovero
delle frecce, oltre a lanterne di navi turche strappate al nemico, con
la caratteristica mezzaluna in cima.
Sopra e sotto: Lanterne di navi turche
SALA
II – Anche in questa sala campeggia un cimelio turco: è uno stendardo
triangolare conquistato durante la celeberrima battaglia di Lepanto del
1571. Decorato da una bordatura su cui sono stati ricamati dei versetti
del Corano, presenta al centro un’iscrizione che rende omaggio ad Allah
ed al suo profeta Maometto. Notevole è inoltre l’armatura di Enrico IV
di Francia, da questi donata alla repubblica nel 1604. La sala ospita
inoltre una quattrocentesca armatura per testa di cavallo, alcuni grandi
spadoni e due alabarde da fuoco, riccamente decorate.
Armatura di Enrico IV di Francia
SALA
III – Il busto di Francesco Morosini, collocato in una nicchia sul
fondo, dà il nome a questa sala. Ammiraglio, nominato comandante supremo
della flotta veneziana durante la guerra contro i turchi dal 1684 al
1688, riconquistò il Peloponneso, cosa che gli valse il soprannome
onorifico di Peloponnesiaco. Divenne poi doge nel 1688. In
virtù delle sue numerose vittorie gli venne conferito ancora vivente
l’onore di un monumento, caso unico nella storia veneziana. In questa
sala sono ordinate e raccolte numerose spade, alabarde, faretre e
balestre, spesso recanti incisa o dipinta la sigla CX. La stessa sigla
compare anche sugli stipiti delle porte, ad ulteriore testimonianza
della potestà del Consiglio dei Dieci. Notevole è anche la colubrina,
piccolo cannone della metà del XVI secolo, finemente decorata e un
archibugio a venti canne – dieci più lunghe e dieci più corte – del XVII
secolo, che potrebbe essere considerato l’antenato della
mitragliatrice.
Colubrina
SALA
IV – La stanza presenta una sorprendente collezione di armi miste:
balestre da fuoco del XVI secolo, mazzi d’arma da fuoco, accette e spade
da fuoco, archibugi del XVII secolo; vi è poi una “cassetta del
diavolo” del XVI secolo, insidiosa trappola mortale che nasconde al suo
interno quattro canne di pistola che fanno fuoco alla sua apertura e una
freccia avvelenata. Non mancano in questa sala gli strumenti di
tortura, una cintura di castità e una serie di armi proibite per le loro
piccole dimensioni che le rendevano facilmente occultabili,
originariamente appartenenti alla famiglia dei Carrara di Padova, vinta
dai veneziani nel 1405.
Trappola detta "cassetta del diavolo"
Il
ponte dei Sospiri fu realizzato nel 1614 per unire il Palazzo Ducale
all’edificio adiacente destinato alle Prigioni Nuove. Chiuso e coperto, è
costituito da due corridoi separati da una parete. Uno collega le
Prigioni alle sale del Magistrato alle Leggi e della Quarantia Criminal
al piano nobile del Palazzo Ducale; l’altro mette in comunicazione le
Prigioni con le sale dell’Avogaria e col Parlatorio. Entrambi i
corridoi, inoltre, sono collegati alla scala di servizio che dai Pozzi
sale fino ai Piombi.
Il
celebre soprannome risale all’epoca romantica e si riferisce al sospiro
del prigioniero che, uscendo dal tribunale, oltrepassa il canale
attraversando il ponte per raggiungere la cella nella quale sconterà la
pena e può appena intravedere , attraverso le piccole finestre, la
laguna, San Giorgio, la libertà.
Chi
entrava in prigione era costretto a pagare alle guardie la cosiddetta
“bella entrada”, o “gobbo”, o “bevarazzo”, per una bevuta comune fra
carcerieri e carcerati.
LE PRIGIONI NUOVE
Il
Palazzo Ducale, sede di tutti gli istituti governativi della
Repubblica, compresi quello della Giustizia, ospitava anche i luoghi di
pena e detenzione. Dalla seconda metà del Cinquecento si decise di
costruire un nuovo edificio al di là del rio di Palazzo, completamente
destinato a funzioni carcerarie, con il fine di migliorare le condizioni
di vita dei prigionieri con celle più grandi, illuminate e areate.
Nacquero così le Prigioni Nuove in cui, però, non tutti i settori di
detenzione risposero ai criteri di partenza. Ogni cella era rivestita,
secondo la tradizione, con tavole di legno di larice incrociate e
inchiodate fittamente lungo le pareti, sul pavimento e sulla volta. Le
Prigioni Nuove rappresentarono per l’epoca uno dei primi esempi, se non
il primo in Europa, di costruzione isolata a blocco, unifunzionale,
destinata a prigione di Stato.
Nelle immagini qui sotto, vari ambienti delle Prigioni Nuove
ITINERARI SEGRETI
Gli
Itinerari Segreti di Palazzo Ducale si snodano lungo alcune delle
stanze in cui, nei secoli della Serenissima, si svolgevano attività
delicate e importanti legate all’amministrazione dello Stato e
all’esercizio del potere. E’ possibile effettuare la visita agli
Itinerari Segreti solo su prenotazione e con accompagnatore
specializzato, in orari e a condizioni particolari.
Tra
i luoghi che si possono visitare con questo itinerario c’è la Stanza
della Tortura, chiamata anche Camera del Tormento, che era collegata
direttamente alle prigioni gli interrogatori avvenivano in presenza dei
magistrati giudicanti; lo strumento più adottato era la corda, alla
quale l’accusato veniva appeso. La tortura, pur praticata anche a
Venezia, non ha qui caratteristiche di particolare efferatezza e viene
progressivamente abbandonata, a partire dal Seicento, fino a venir
praticamente abolita nel secolo successivo.
La Camera del Tormento
Dalla
sala della tortura si passa direttamente alla zona dei Piombi. Il nome
deriva dalla copertura a lastre di piombo del tetto. Erano qui sistemate
alcune celle detentive, riservate ai prigionieri del Consiglio dei
Dieci, accusati di misfatti prevalentemente politici, o comunque per
pene non lunghe o reati non gravi o per detenuti in attesa di giudizio.
Le celle erano sei o sette, ricavate suddividendo lo spazio del
sottotetto con tramezze di legno, fittamente inchiodate e irrobustite da
grosse lamine di ferro. Descritti da Giacomo Casanova che vi fu
detenuto, i Piombi offrivano ai prigionieri condizioni di gran lunga
migliori di quelle dei condannati ai Pozzi, terribili celle al piano
terra di Palazzo Ducale.
Un’altra
sala che si può visitare negli Itinerari Segreti è quella degli
Inquisitori. Temutissima magistratura istituita nel 1539 per tutelare la
riservatezza dell’operato statale (la sua dizione esatta è “Inquisitori
alla propagazione dei segreti dello Stato”), era costituita da tre
membri, due scelti all’interno del Consiglio dei Dieci e uno tra i
consiglieri Ducali. Dovevano garantire obiettività, competenza ed
efficienza nel loro operare, oltre alla segretezza assoluta sulle loro
attività e sui fatti di cui venivano a conoscenza. Dotati di ampia
discrezionalità, potevano venire a conoscenza delle informazioni con
qualunque mezzo, incluse delazione e tortura.
Il soffitto della sala è decorato con opere di Tintoretto eseguite tra il 1566 e il 1567.
Altra
sala segreta è quella dei Tre Capi, magistrati scelti ogni mese tra i
dieci membri del Consiglio dei Dieci, cui spettava la preparazione dei
processi e l’attuazione delle risoluzioni del Consiglio, da effettuare
nel più breve tempo possibile, secondo priorità stabilite da loro
stessi.
La
decorazione del soffitto, eseguita tra il 1553 e il 1554, è dovuta a
Giambattista Zelotti, a Veronese e a Giambattista Ponchino.
LA PORTA DELLA CARTA
Veduta del porticato (o arco) Foscari dalla Scala dei Giganti
Per
uscire da Palazzo Ducale si attraversa il porticato Foscari e si
oltrepassa la Porta della Carta, che in realtà sarebbe l’entrata
principale al Palazzo; si trova accanto alla basilica di San Marco, su
un angolo della quale è situato il gruppo scultoreo in porfido
rappresentante i Tetrarchi (l’opera del IV secolo è visibile in basso a
sinistra nella foto). Chiamata così da un probabile deposito delle
“carte” dell’Archivio statale, qui ubicato, o dalla presenza degli
uffici degli scrivani, la Porta della Carta fu commissionata a Giovanni e
Bartolomeo Bon nel 1438. Originariamente policroma, è decorata nelle
nicchie con statue rappresentanti la Temperanza, la Fortezza, la Prudenza e la Carità.
Sull’occhio dell’arco inflesso vi è san Marco e sul vertice del coronamento la Giustizia. Sopra il portale, il doge Foscari inginocchiato di fronte al leone andante è una copia di Luigi Ferrari (1885) realizzata in sostituzione dell’originale, distrutto durante i moti del 1797.
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